giovedì 12 gennaio 2017

Guttuso: tempo del realismo

di Tommaso Romano

Sono passati circa trenta anni  dalla morte di Renato Guttuso e per il maestro di  Bagheria è venuta l’ora di un sereno confronto storico – critico, facendo i conti con la sua opera e figura, da necessariamente contestualizzare, senza perpetuare l’ombra o di una retorica di maniera o di una liquidazione aprioristica e sommaria che ne hanno invece caratterizzato il percorso lungo l’arco dell’intera sua esistenza, fino alle polemiche da gossip intorno alla malattia, alla conversione, alla morte.
Guttuso è interamente appartenuto al clima culturale del Novecento, secolo breve e al contempo lunghissimo e mai tanto nodale e sanguinoso, rispetto all’intera storia del mondo e dell’arte.
Guttuso appartiene infatti alla storia italiana, calato con tutti i riflessi e gli influssi – anche ideologici – propri della vicenda, non solo artistica, ma anzitutto geopolitica del vecchio continente. Tuttavia Guttuso può dirsi anche erede nel solco tracciato dal vedutismo e dal verismo dell’Ottocento siciliano.
Come scrisse riassuntivamente Enrico Crispolti «il rilievo della personalità guttusiana è nel segno di un’individualità creativa molto forte, malgrado l’ampiezza del dialogo culturale di volta in volta istituito. È, malgrado tutto, nella sua unicità, che si iscrive storicamente, avanzandone spesso affascinanti mozioni, sostanzialmente nella linea di una grande figurazione che aspira ad offrire il volto dell’uomo del nostro tempo nella sua contingenza storica e nella verità quotidiana della sua esistenza. Una figurazione la sua, che si fa partecipe dell’immaginario collettivo, intrecciando la propria memoria a risultanze antropologiche o culturali, in un riscontro d’ampio respiro fra individuo e società”.
Già a partire dagli anni Trenta del ‘900 possiamo rintracciare le costanti del tessuto ideativo guttusiano: le coloratissime botteghe bagheresi, i carretti con dipinte le battaglie carolinge, di cui il giovane Renato resterà per sempre segnato, con il magistero dei Ducato e dei Murdolo, con il rapporto con Buttitta Civello, Giardina, Pippo Rizzo con il suo personale futurismo siciliano. Del giovane Guttuso vanno ricordati gli affreschi nella chiesa di Aspra, la partecipazione con Nino Franchina, Lia Pasqualino Noto, Giovanni Barbera  al Gruppo dei Quattro, la partecipazione alle prime Sindacali fasciste, fin alla fronda con la c.d. “sinistra fascista” di Bottai e la sua rivista Primato”, di cui Guttuso sarà collaboratore fin agli inizi degli anni Quaranta, e che gli dedicherà un famoso numero monografico. Verrà la svolta radicale con al PCI clandestino a cui Guttuso si iscriverà e poi con la Resistenza e la successiva militanza. Fino al conferimento del sovietico Premio Lenin.
Il suo modo di rappresentare il realismo sociale nelle dichiarazioni plurali e nella rete comunicativa che il cromatismo, a volte esasperato, evidenzia nella sua pittura, con il segno netto dei suoi disegni, che mettono in luce la «espressione di umanità e vita» e la sua idea fondante di pittura e di epos collettivo.
Certo, Guttuso non fu immune dal ripetersi, con un numero di opere – specie grafiche – di largo consumo e non sempre “deontologicamente plausibili”.
Tuttavia, è certo che a partire dalle tavolette, dalle donne alla fontana (conservata a Palazzo Comitini di Palermo), dai ritratti, la lezione del Novecento si mischierà  alla sollecitazioni liriche della pittura di un Martini e di un Carrà, e poi a quella di Picasso. Centrale sarà la Crocifissione (1940-41) guttusiana, esposta al Premio Bergamo. Poi  via, via con una forte insistenza, si indirizzerà ai temi e al clima della vita contadina, alle lotte sociali, all’analisi figurativa esistenziale delle condizioni della gente comune, tutte opere calate nella realtà e di cui l’articolo in “Nuovi Argomenti”, I comunisti e l’arte (Roma, maggio – giugno 1953) resterà sintesi di una presa di coscienza intima e insieme politica che sfocerà, a volte, nell’esibito ideologismo. Nell’altro articolo Sulla via del realismo, Guttuso tenderà a sottolineare tutto ciò che considera come esemplare di una “immagine popolare”, secondo i canoni socialisti.
Realismo sociale e realismo della condizione esistenziale si intrecceranno così in una aperta denuncia dello stato presente, in una lotta – corpo a corpo, direi – con l’espressione che cose e uomini propongono alla storia, in un turbine di passionalità, che connoterà comunque sempre la visione politica oltre che quella artistica. Una realtà, come dirà a Dario Micacchi (su “L’Unità” del 27 dicembre 1981) che è tale “anche se è sogno” e che, per molti versi, è parte del suo stesso conflitto con la memoria, malinconia e la narrazione di sé, come poi li ritroveremo in Spes contra Spem, opera del 1982.
Ancora nel 1983, in un’intervista, Guttuso sosterrà che «se uno è capace di tradurre l’infelicità in malinconia, ecco questo è per me molto produttivo”.
L’interpretazione psicologica dell’opera di Guttuso è in tal senso sottolineata come essenziale  da Testori, Briganti e Calvesi, e si raccorda con quella interpretazione espressionista e del neorealismo tipica delle impostazioni critiche dei Trombadori, De Grada, Argan, fino a quella ancora detta vitalistica di Longhi. Più in generale, ciò si esplicita in Guttuso nelle grandi opere di impegno storico-civile (La battaglia del Ponte dell’Ammiraglio, 1951-52, I funerali di Togliatti, ma anche con la straordinaria anticipazione, del 1938, della fucilazione in campagna, nonché con la Fuga dell’Etna e lo zolfataio ferito, dello stesso periodo).
Il ritratto della madre del 1940, è ancora la concreta adesione personale di Guttuso ad una poetica del reale che egli metterà già in evidenza, proprio su “Primato” (del 15 agosto 1941) nel suo articolo Pensiero sulla Pittura: “Perché un’opera viva, bisogna che l’uomo che la produce sia in collera ed esprima la sua collera nel modo che più si confà a quell’uomo. Un’opera d’arte è sempre la somma dei piaceri e dei dolori dell’uomo che l’ha creata”.
Sul versante strettamente realistico ecco le opere del dopoguerra e in specie l’opera del 1949-50 Occupazione delle terre incolte in Sicilia che, al di là di alcuni limiti formali e dissonanti, già sottolineati da Giuseppe Marchiori, sono però da inquadrarsi in quella sorta di dichiarazioni-manifesto che lo stesso Guttuso chiarirà nel testo Sulla via del realismo (in “Società”, marzo 1952) in cui, fra l’altro, afferma: “Oggi possiamo solo dire che esiste una corrente, un gruppo di artisti che è incamminato sulla via del realismo è per noi: “Una guida per l’azione”, una condizione di lavoro, non una formula o una scuola”. Oltre a Gramsci, nel citato testo si cita Stalin, per controbattere “al cerchio chiuso delle aristocratiche formule idealistiche”, ed anche polemizzando duramente con l’astrattismo e per quelle che egli evidenzierà come non certo autentiche novità: “Le scoperte dell’arte moderna non sono i triangoli, i quadrati, le forme pure. Ed è nella realtà e nella vita che si trova “il linguaggio” e che si operano “le scoperte”. E non è possibile e non è vero che quel linguaggio che è stato scoperto per raccontarci un mondo di chitarre e di fruttiere e di carte da gioco e di bottiglie impolverate, serva a quella ripresa di contatto con la realtà e con la vita serva ad esprimere la realtà e la vita”. Ancora, “se per esempio un pittore vuole rappresentare un gruppo di contadini al lavoro, questo pittore avrà il problema di scegliere dei tipi determinati, di fare ed esprimere ai loro volti determinati pensieri, dovrà dar conto di un certo lavoro, di un certo paesaggio, di una certa ora del giorno. Questi sono e sono stati  sempre i problemi della pittura. Questi sono i nostri problemi formali. Ed è per questo che hanno grande importanza. Un’idea diventa suggestiva, convincente, penetrante, solo in virtù di una forma bella, armonica, perfetta. Ma non esiste né può esistere una forma bella, armonica, perfetta in sé, che non sia forma di qualche cosa, che sia la forma del nulla; perché il nulla non ha forma”. Concludendo il suo articolo Guttuso affermerà perentoriamente che “l’arte oggi si dibatte tra questi due poli: un’arte astrusa, intellettualistica, che nega la realtà o si compiace di offenderla nell’amore morboso del deforme, e una figurazione grigia, fotografica, fatta di esterne verosomiglianze, di falsità, di tristezza accademica. Al di sopra di questi aspetti sia fa strada la corrente realistica, la quale aspira ad un arte, ad un pittura che non nasca nel chiuso dello studio, frutto di riflessioni astratte, di condiscendenza alle mode cosmopolite, di ispirazione e fattura conseguente all’opera di altri artisti (secondo la teoria decadente di A. Malraux) e alle riproduzioni sulle riviste, ad una pittura che non si serva di formale buone indifferentemente per un pittore bulgaro, australiano, cinese e per un pittore italiano: una pittura legata alla vita e alla società moderna, ma (come sempre è accaduto nella storia e si pensi ai due grandi momenti di Giotto e di Caravaggio) non a quel che di questa società è rinsecchito o in decomposizione ma quello che progredisce ed avanza. A quelle parte della società che porte le nuove idee, le nuove energie, che si avvia a costruire un mondo più libero, più giusto, più felice. Un’arte dunque chiara nella sua forma, ottimista ed edificante nel suo contenuto, un’arte legata ai motivi profondi della nostra tradizione ma nutrita della nuova storia dell’umanità portavoce delle sue lotte e delle sue speranze”.
La necessaria e non breve citazione, si concludeva con l’auspicio di un “legame più diretto con la vita e col popolo”, per “continuare quei caratteri e quelle tradizioni che se si subiscono passivamente e scolasticamente sono una remota accademica e conducono alla fredda esercitazione. Ma che diventano strumenti di coscienza dell’animo popolare e punti di bellezza e di poesia quando sono utilizzate alle elaborazione e all’espressione della nuova realtà”.
A queste linee e teorie si rifarà quindi Guttuso negli anni seguenti a quelle dichiarazioni, pur non mancando di “trasgredire” in certi lacerti narrativi come ne La spiaggia (1955-56), oltre che nella raffigurazione di paesaggi siciliani  e romani e della residenza di Velate. Ancor più in Roch and Roll del 1958.
Le nature morte, gli interni, i nudi, “La discussione” (1959 – 60), l’unica opera scultorea “L’edicola” oggi a Villa Cattolica a Bagheria, ricondurranno l’artista  alle linee anche compositive più complesse che nel ’68 avranno compimento prima nel raffigurare nell’opera Giornale murale, in piena aderenza a quel particolare clima storico, che corrisponde al grande travaglio dell’est Europa ancora sotto il tallone sovietico e che avrà simbolico compimento con la morte di Jan Palach che si dà davanti ai carri armati del Patto  di Varsavia, in piazza San Venceslao a Praga.
Del tutto esemplare è un’altra opera di Guttuso del 1969 la Distruzione di Sodoma, parte di un ciclo allegorico, biblico, inteso come “prefigurazione della catastrofe  finale delle metropoli moderne”. Un’opera a suo modo “apocalittica”, ben lontana da arcadie ottimistiche di certo falso progressismo e storicismo di maniera, ancora peraltro assai in voga in quel periodo. È  una città che esplode in un groviglio di tubi e fra corpi inermi nel rosseggiare, tipico della tavolozza di Guttuso, capace di evocare. Il terremoto siciliano del 1968 è ancora occasione di introspezione, analisi del terrore, compimento di distruzione, smarrimento (vedi Le notti di Gibellina), che pure la natura può provocare, non certo benignamente.
I Funerali di Togliatti del 1972 – con una selva di bandiere e di ritratti di leader comunisti –  sembra rendere omaggio estremo non solo  al proprio riferimento ideale e politico, ma a quella  parte che sembra già avviarsi fra slanci e incertezze sulla via dell’eurocomunismo dal volto umano e procedere verso uno sganciamento lento dall’orbita sovietica.
In un miscuglio di nostalgie e di speranze va quindi letta l’opera di Guttuso.
La molto celebrata Vucciria (1974) e il Caffè Greco (1976), saranno così le efficaci  e ulteriori citazioni di un mondo e di personaggi che, sul crinale della vita del Nostro, si riproporranno con i temi memoriali, il ricordo di figure care (è il caso del ritratto esemplare dell’amico Giacomo Giardina, che compare nell’edizione Ila Palma palermitana, delle liriche del poeta pecoraio ambulante).
In una significativa intervista della fine degli anni ottanta, Guttuso  dichiarerà che: “invecchiando, andando avanti negli anni divento più “romantico” e cerco di spiegarmi. Sento il bisogno di affrontare il mistero che c’è nelle cose. Nei quadri il contenuto vero di un pittore non cambia perché è il contenuto di se stesso, è quello che è. Cambiano però le illusioni sul modo di manifestarlo. Alcune se ne vanno, ne nascono altre, si  attacca alle nuove e ai nuovi desideri. È il passato … bisogna saperlo vedere, bisogna capirlo e servirsene per andare avanti. Io mi attacco sempre più al passato”.
Tornano così i simboli, i miti, le consuetudini antiche (Giocatori di scopone, 1981), i misteri, e nell’opera La visita della sera del 1980, sembra farsi prepotente la necessità metafisica ne L’ora della tigre e nel Bivacco di streghe (1980), in Spes contra Spem del 1982, tutti gli elementi e i volti si coniugano in affresco. Dopo l’esperienza politica diretta di Guttuso nel PCI (nel 1983 non vorrà riproporsi al Senato)  lo sguardo si rivolgerà ancora una volta alla natura, specie nell’Eruzione dell’Etna (1983), in cui quattro personaggi di spalle osservano i fiumi di lava come nell’opera di Friedrich, dove l’uomo in piedi e solo osserva l’infinito, esattamente allo stesso modo dell’opera di Friederich, Il viandante sul mare di nebbia, del 1818, una icona romantica certamente non avulsa dalla poetica conclusiva di Guttuso. Le citazioni finali, gli interni, la contemplazione ancora carica di sensualità e di nostalgia per la donna, una religiosità naturalistica chiuderanno il ciclo e il sipario di una esistenza che all’arte ha molto chiesto e dato, lasciando ampie e significative tracce in quelle opere, a mio avviso nodali, che ho prima ricordato come significativi exemplum. Senza trascurare, però un certo compiaciuto ed esibito ricorso all’ovvio, più che al reale, elementi che pure hanno connotato tante produzioni, quasi seriale, del maestro bagherese.
Compreso e ostacolato, emblema anche di contraddizioni, Guttuso visse i miti della rivoluzione sociale come palingenesi, non sempre rendendosi ben conto di essere “strumento del principe”. E qui bisognerebbe rileggere anche il rapporto, poi divenuto scontro, con Sciascia.

E, tuttavia, di Guttuso restano non poche opere significative  espressione di una stagione irripetibile (che tardi epigoni cercano ancora inutilmente di perpetuare pittoricamente, come scolari immaturi), resta il mestiere e la sensibilità, resta soprattutto la fedeltà alla pittura, l’essere – oltre la retorica del suo stesso linguaggio – un autentico pittore, un’artista che ci ha pure trasmesso, sapendo e volendo discernere, un’ethos ed anche un’epos.

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