venerdì 25 settembre 2015

Storia e mito in Salvatore Caputo


Il 2014 ha visto da festeggiato protagonista  - per i suoi 50 anni di fervida attività artistica – il Maestro Salvatore Caputo, con la periodica esposizione dei suoi significativi cicli pittorici, ospitati al Centro Internazionale di Etnostoria di Palermo allo Steri, presieduto autorevolmente dal Prof. Aurelio Rigoli. Una di queste retrospettive – con ulteriori opere della assai originale Ilaria Caputa, figlia del Pittore di Castell’Umberto- è stata presentata da Tommaso Romano e il cui testo è ora parte di un bel numero monografico della celebre rivista “Etnostoria” che riprendiamo integralmente. 


Sarebbe pleonastico, parlando delle opere di Salvatore Caputo, inutile, ripetere i concetti e le valutazioni estetico-critiche in tante sedi mirabil­mente esposte, ma direi anche raccontate quasi nel senso di una sequenza anche di umori, di sapori mediterranei, che non sono certamente né colo­ristici e fini a se stessi, né tantomeno marcano una dimensione che molto spesso in Caputo è stata identificata col surrealismo, sbagliando obiettivo. Quella di Caputo è una cifra assolutamente personale, come è personale il modo, il senso del vedere, del guardare con attenzione, che è quella di questa simbiosi, non solo di padre/figlia Ilaria, ma - direi - di questa sim­biosi che continua quasi miracolosamente, non nella ripetizione, piuttosto alla ricerca di una perfezione possibile. [...] È la perfezione di Ilaria che si manifesta non solo, anche se è già tanto, attraverso queste figure esemplari [che si trovano nei volumi d’arte] indici di un percorso, ma anche esem­plari, specialmente in San Francesco, di una ricerca di quella che già negli anni ottanta/novanta Aldo Gerbino, a proposito di Salvatore, definiva una “laica sacralità”, perché c’è un approccio loro, dei Caputo, che va “per li rami” quasi alchemico e misterico. Non abbiamo forse la consapevolezza di letture particolari, di sistemi filosofici a cui loro si riferiscono. È però un fatto che li riguarda, direi quasi con pudore - io conosco Salvatore da quarant’anni, mi vanto di essere amico suo - eppure è difficilissimo decli­narlo concettualmente. Esattamente come il periodo di passaggio verso la grande stagione... Sono opere che sono assolutamente foriere di una com­posizione mistico-sacrale, che ci richiamano a un realismo magico, che è un realismo che vive nei luoghi e vive anche il dissidio della dimensione umana e della stessa dimensione della “statuaria”, che è sovratemporale, atemporale. Questo che poi diventerà il motivo dominante con le figure quasi in movimento, in cui puoi scrutare, nella duplice accezione, ciò che vive nel dinamismo e ciò che vive anche nella apparente staticità. Ma che cos’è, in tale misura, la staticità? Non è affatto uno star fermi, semmai è sfidare il tempo dei barbari. Cominciano adesso ad entrare ulteriormente nella dimensione di Salvatore Caputo, nel suo viaggio interiore. E questo viaggio interiore nasce da quella “materia dei sogni” che poi però è anche un sogno complesso. Non è il sogno della bellezza soltanto, è grande con­trasto, nella grande dimensione della oniricità in cui vi è anche l’equazione del dramma. In questo senso, allora, cosa bisogna cercare e trovare? Per ottenere una cifra personale, per ottenere una realizzazione di sé dopo i contrasti, dopo le stagioni, magari, delle illusioni? Ecco, a poco a poco questi anni rappresentano - e compiutamente: vediamo quella grande ope­ra intitolata “Il giardino di Melia” - la dimensione quasi propria dell’ap­prodo, di questo cammino dove la solarità si è molto compromessa alle tenebre. Tuttavia la tenebra, come la luce, ha bisogno dell’ombra, e l’ombra della luce. Così, in questo richiamo continuo c’è l’approdo, appunto, finale, il tentativo anche di andare oltre la dimensione spazio-temporale.
"Fiori di primavera", cm 40x50, oli e acrilico su tela, 2013

In questi frammenti ci sono anche i luoghi - si pensi e si “entri” in quell’opera straordinaria “La valle” fra le più belle di questa mostra e in generale della sua produzione. Noi vi possiamo trovare tutta una serie di echi anche legati ai suoi luoghi d’origine - Castell’Umberto, naturalmente; la stessa Ucria, dove c’è del resto tutta la tradizione etnostorica del Centro Internazionale di Etnostoria - Fondazione Prof. Aurelio Rigoli, a cui Caputo ha dedicato, tra l’altro, più di una medaglia emblematica della sua grande versatilità. Primordiali, che non significano “primitivi”. Primordiali nel senso del recuperare ciò che è possibile, ciò che non deve essere annullato e sconfitto da una memoria labile. Vi è anche un richiamo ai luoghi di Lucio Piccolo, alla Piana di Capo d’Orlando, perché propri nella dimensione metafisica e onirica di Caputo, con il grande e straordi­nario cimitero dei cani, che si staglia verso l’orizzonte, la valle da un lato e il mare dall’altro. C’è questo humus, intriso naturalmente di miti: dal mito di Helias, ai miti, che ci richiamano ad antiche inquietudini. Il mito non è un dato soltanto di chiarificazione o di bellezza fine a se stesso: è un orizzonte, un raggiungimento; è sempre, comunque, una dimensione in cui vige il contrasto - gli dèi sono in contrasto, gli dèi fanno la pace, ma fanno anche la guerra - e quindi è la condizione stessa che si sublima rispetto a quella che è invece tipicamente umana, e, tuttavia, il tempo e il mistero si mischiano, quindi anche la dimensione temporale si mischia a quella del mistero. E qui già cominciamo a intravedere, rispetto ai de­cenni precedenti, una misteriosa aura che accompagna queste opere: nel silenzio che acquista una sua solennità; non solo “sacralità”; solennità. Certo, c’è il dato che ci conforta e ci appassiona dei luoghi, ma c’è anche questa straordinaria capacità di entrare e dialogare senza profferire verbo, in sintonia. Significativa è l’opera “Il collezionista”, in cui si compie una grande, straordinaria collezione di sé, dei suoi paesaggi interiori, della sua dimensione onirica, del suo mito interiore. Pensate anche a opere letterarie straordinarie, a un De Goncourt, che descrive la sua casa: mille pagine per descrivere la conoscenza di una casa! Sono tappe di una vita, tappe di una coscienza che si svela, si manifesta. E in questo troviamo la parola delle cose, il “respiro più grande”, direbbe Piccolo; ci sono gli ectoplasmi che a volte noi vediamo trasparire da queste opere; così come nelle pergamene, che per la prima volta sono esposte e sono anch’esse lacerti straordinari di una incursione nel tempo, che pure voleva distruggerle, voleva annientarle, e che Salvatore Caputo salva invece miracolosamente, lasciandoci, e lavo­rando come sa fare lui attraverso la ri-creazione di queste carte stesse, dan­do la vita nuova, direbbe Dante, con gli inchiostri di china nelle nuances, che poi si manifestano liricamente potenti attraverso le luci, le ombre, in quelle pergamene antiche che hanno, in tutto, il sapore di una storia. Ecco, la storia, che quasi si immobilizza rifiutando il dinamismo che sovente distrugge e, tuttavia, è storia vera, non una storia che vuole essere per forza citazione del “bel tempo andato”, assolutamente. È la storia che riguarda il reale, anche il presente, il suo presente. Ed è il presente anche di molti di noi che prendono vieppiù coscienza etica e intellettuale da quella idea che la pittura sia morta e debba essere confinata tra le anticaglie. È l’idea totalizzante e sbagliata del fondatore del MoMA di New York, il quale sostiene che non esiste altro che l’astrattismo. È l’idea, falsamente concet­tuale, del minimalismo, di istallazioni temporanee, effimere dell’ovvio. È la dimensione - in sostanza - dell’essere controcorrente, del ri-trovarsi, non del Tempo Mitico soltanto, ma del ritrovarsi interiore, quindi un viag­gio entronautico, che avrà poi, nella dimensione della luce e nella scoper­ta della luce, una stagione ulteriore fervidissima, che ancora noi viviamo nelle opere di Caputo. Quindi, un momento importante, di svolta, gli anni ’80 del trascorso Novecento. In questo contesto la lettura dell’opera capu- tiana è non storicista, non lineare, rimanda a un Tempo Mitico, che è il suo, e in cui ci ritroviamo anche tutti coloro che amiamo andare oltre e fuori dal banale e dal contingente. La pittura di Caputo è stata sempre un sigillo di autenticità. Stimola quasi la voglia di entrarci dentro in questi paesaggi interiori, di toccare queste statue, ancora figure, ancora donne e ancora statue non ben delineate; questi volti quasi mai accesi da lucentez­za esteriore eppure pregni di echi, di lucentezza interiore diversa rispetto a quella degli occhi, la lucentezza del profondo. Abbiamo un’esperienza di importanza capitale ricapitolando i cinquant’anni di attività mirabile di Caputo, a cui, naturalmente, noi auguriamo tanti anni ancora di ricerca e di ulteriori grandi esiti - così come alla bravissima figliola che merita ogni elogio, perché non è soltanto allieva; io proprio ho detto in “simbiosi” con questa capacità di comunicare linguaggi anche molto diversi, bravissimi a usare le tecniche, i materiali. L’arte vera è sudore, ma è anche pazienza, è silenzio, attenzione. La collezione di sé è anche la collezione delle cose che meritano di essere salvate rispetto a un mondo che, ahimè, ha poco da salvare. Tuttavia, l’arte, come sempre quando è vera, riesce a darci una chiave anche di speranza, di risolutiva salvazione.
Ci comunica, se solo siamo capaci di entrare realmente in sintonia con l’Opera d’Arte, uno Stile. Che Salvatore Caputo possiede e prodigiosa­mente ci dona.

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