venerdì 31 luglio 2015

Francesco Alliata, "il Mediterraneo era il mio regno. Memorie di un aristocratico siciliano"(ed. Neri Pozza)

di Tommaso Romano


Non sono pochi i libri di memorie di aristocratici siciliani, scritti o dettati, e/o pubblicati in memoria capaci di suscitare l’interesse non solo di una fetta di lettori appassionati e di cultori di tradizioni patrie, ma anche utilizzati per ricostruire una storia di famiglie molto spesso complessa , articolata e ricca, che si pretende di obliare o di mortificare – in troppe snobistiche occasioni – come un residuo da cui disfarsi perché ingombrante, impegnativo, e forse perché interroga la coscienza degli ignavi e dei responsabili della deturpazione anche edilizia e del paesaggio, unite al colpevole disinteresse delle “autorità”, alle mani mafiose e a volte politiche stese sui patrimoni ceduti e/o sottratti con il raggiro, con la violenza o con artigli voraci.
Una storia ancora da ricapitolare per intero, dalla parte di chi ha fatto la storia di Sicilia rispetto agli incapaci sciacalletti, alle macchiette, ai ladri e delinquenti che da troppi decenni infangano l’isola e la manomettono gettandola nel caos e nel disgusto, nel saccheggio e nello sfregio alla sua millenaria e, diciamolo gloriosa storia.

Biografie, storie, aneddoti, cedimenti e resistenze della parte nobile che l’indimenticabile Amico Bent Parodi di Belsito non smise mai di riproporre e sottolineare a partire dalle vicende, dagli intrecci fra successi, tonfi, rovine e orgogliosi ritiri in solitudine, ad appannaggio di straordinari personaggi  sui cui, appunto, le memorie proposte risultano avere un peso notevole da non disgiungersi dal fascino e dal rammarico che prende leggendo le loro pagine o le loro biografie. Non tutti i capolavori letterari, sia chiaro, ma pezzi, tasselli utilissimi per comprendere il valore, le contraddizioni, il peso dell’aristocrazia e di colore che hanno saputo restare in piedi in campi molto diversi, o hanno saputo conservare preservare la bellezza che il volgo, gli arricchiti illecitamente, la borghesia dei “villini” non poteva comprendere.
Storie a volte emblematiche, a volte tragiche, ma storie, vicende vere, anche – per non pochi – nel crepuscolo del declino inarrestabile e nel cupio dissolvi.
Certamente, capostipite indiscusso di tali memoriali memorabili dovrebbe essere giustamente considerato il famoso Marchese Francesco Maria Emanuele e Gaetani di Villabianca con i suoi opuscoli infiniti, minuziosi, a volte pedanti sulla società settecentesca, non solo aristocratica. A cui è giusto aggiungere il poligrafo reazionario e tradizionalista Vincenzo Mortillaro di Villarena, che mi pregio aver restituito alla luce che gli è dovuta.
Ma il filone a cui mi riferisco, anche a causa della fine della regalità in Sicilia e nel resto del continente, data appunto a partire dai testi che, nel periodo a noi più contemporaneo, indubbiamente hanno in Giuseppe Tomasi di Lampedusa e nel Suo immortale Gattopardo , la pietra miliare, che ha dato via alla scia delle memorie proprie e di famiglia intessute fra religiosità, affari, politica, amori, eroismi, dissesti finanziari, bella vita e povertà, professioni borghesi e voluti annullamenti di stato, in nome di una presunta novella eguaglianza che si è tradotta nel livellamento verso il basso.
Va appena ricordato che tutte le famiglie assurte a distinzioni premiali e onorifiche e graziate di titoli e di prebende, hanno avuto i loro fondatori, non nobili . come dire che la nobiltà dovrebbe essere per tutti i dotati di virtù, una sorta di aspirazione al meglio, votata alle grandi e significative conquiste, ad un riconoscimento more nobilium impegnativo, altruistico verso disagiati e sfortunati, che dovrebbe essere sempre sorretto da spirito cavalleresco e non da albagia e utilitarismo. Pena l’annullamento del titolo stesso.
Questa non breve premessa, con la promessa a me stesso di tornare più ampiamente sul tema, anche storiograficamente oltre che dal punto di vista letterario e dottrinale, per raccontare adesso finalmente del bel libro di Francesco Alliata di Villafranca, Il Mediterraneo era il mio regno. Memorie di un aristocratico siciliano , Neri Pozza editore di Vicenza(2015) con una bella introduzione di Stefano Malatesta a sua volta autore di libri imperdibili su fatti, ambienti e persone di Sicilia.
Ho letto in due riprese questo libro – avvincente per altro – del Principe Alliata. Appena uscito, infatti, sapendone e attendendone la comparsa in libreria, mi sono fiondato avidamente nella lettura, riponendolo per circa un mese data l’impressione in me suscitata dalla scomparsa a quasi novantasei anni, del Principe a pochi giorni dall’uscita del suo libro-verità, che spero abbia avuto fra le mani prima della scomparsa.
Formidabile protagonista in Sicilia di un intero secolo,amava dire che bisogna essere Principi prima di apparirlo.
Ho avuto il privilegio della conoscenza di questa unica figura di aristocratico siciliano, che ha fatto onore alla sua vocazione, alle sue vicende personali, alla sua famiglia e alla nostra sempre bellissima e ineguagliabile terra. Grazie devo subito dire, soprattutto a Nino Aquila  che me lo presentò, un gentiluomo e letterato che tanto ci manca, e a Rita Cedrini, docente universitaria e antropologa di valore, giustamente celebrata nel libro di Alliata come punto di riferimento della rivalutazione delle sue imprese novecentesche, a volte veramente epiche. Ricordo un afoso pomeriggio di qualche anno fa, alla Sala delle Lapidi di Palermo in cui gli conferimmo, grazie a Rita in particolare e al Dott. Anello e a chi scrive fra i giurati, il Premio Speciale Arenella-Città di Palermo per tutto ciò che oggi, grazie anche al libro sappiamo nel dettaglio, nella briosa narrazione, nelle combattive scelte e determinazioni dettate dal fare e che l’autore rivendica in toto, pur con talune ingenuità unite a tanta buona fede, non sempre corrisposta peraltro. La storia quasi millenaria della famiglia degli Alliata – che vanta parecchi rami ancora oggi – fra guerrieri, letterati, Santi, uomini di potere e Beati, ha inizio a Pisa.  Mercanti di quella Repubblica aristocratica ( le cui gesta furono oggetto di un volume storico di grande importanza che dobbiamo a Marco Tangheroni, valoroso medievalista e caro Amico, troppo presto scomparso) che presero dimora in Sicilia assurgendo le più alte care del Regnum e gestendo il servizio di posta. Vicende che la zia di Francesco, Felicita (1876-1974) aveva ricordato in un suo imperdibile volume anch’esso di memorie Cose che furono attraverso la storia di un’antica famigli italiana, edito da Flaccovio nel lontano 1949, e in cui le origini della famiglia, come si usava nei secoli scorsi, sono ricordate avvolte nella mitologia antica, ma ben documentate quelle degli ultimi secoli, non esenti da aneddoti ed esaltazioni che invece mancano, ed è un bene, alla fluida scrittura di Francesco.
Altro libro che voglio ricordare è quello delle memorie di Gianfranco Alliata di Montereale, principe anch’Egli, e di un altro ramo della famiglia, pure ricordato nel libro attuale del Villafranca insieme alla memoria della madre di Gianfranco, Olga Matarazzo. Mentre di Francesco sono stato un buon conoscente, come lo sono della degna figlia Vittoria, scrittrice e fiera imprenditrice (a cui ebbi l’onore a Bagheria di attribuire nel 2012 il Premio Socialità e Cultura del Circolo Giacomo Giardina, presieduto da Giuseppe Bagnasco), che è stata capace di riunificare le proprietà disperse della villa bagherese di famiglia, teatro in un recente passato di corvi rapaci e di interessi e presenze mafiose, di Gianfranco Principe del Sacro Romano Impero, che dilapidò una fortuna fra la politica monarchica (fu più volte deputato, le donne, la massoneria, l’esilio per improbabili golpe), sono stato amico e mi legano a lui tanti ricordi di comuni imprese culturali in Grecia, a Malta, a Roma e oltre che ovviamente a Palermo.
Il libro dicevo, fa il periplo di un secolo storia propria e di Sicilia. Scorrono in modo lieve le tappe della formazione, la famiglia, l’iniziazione alla cultura con la correzione di 7500 pagine di bozze, le proprietà sparse in tutta l’isola, il ricordo vivo del maestoso Palazzo Villafranca a piazza Bologni a Palermo con una Crocifissione di Van Dyck, i viaggi la vita militare da ufficiale addetto alle riprese cinematografiche, la guerra, la passione mai venuta meno per il mare, per la fotografia, per il cinema, per gli affari (non sempre andati a buon fine), la difesa della proprietà avita di palazzi, ville, delle terre dall’assalto dei nuovi barbari della burocrazia sclerotica e del malaffare mafioso. 
Certo dire di Francesco Alliata, è dire innanzitutto della sua creatura più riuscita: la Panaria film, fondata nel 1946. Il cuore del libro,  e certamente il più riuscito. Una volontaristica impresa tutta siciliana condotta con i sodali Pietro Moncada, Renzo Avanzo (veneto e primo marito di Uberta Visconti, sorella di Luchino e poi moglie del compositore e direttore d’orchestra Franco Mannino) nonché da Quintino di Napoli (poi raffinato artista che mi onorò della sua considerazione con bellissime conversazioni domenicali a piazza San Domenico , e nella sua casa a largo dei Cavalieri di Malta. Tutte le vicende di questa coraggiosa casa di produzione che prendeva il nome dall’isola di Panarea nelle Eolie, vi sono minuziosamente e con godimento raccontate, insieme all’invenzione con le prime riprese subacquee al mondo (una volta si diceva sottomarine) nonché dei documentari e dei film prodotti. Memorabile resta la storia del “duello” cinematografico tra la Panaria e Roberto Rossellini, e fra due film emblematici “Vulcano” con Anna Magnani e “Stromboli terra di Dio”  con la Bergman in funzioni di rivali sul set e non solo artisticamente, contendendosi le due attrici un Rossellini ormai stanco di Nannarella e innamorato della sensuale Ingrid. Vulcano della Panaria fu notevolmente e artatamente ostacolato da svariate forze clericali e politico-cristiane e da interessi geoculturali anche americani, che sfuggivano però ad Alliata ed ai suoi amici. Altra impresa da ricordare fu “La carrozza d’oro” un film altrettanto bello e significativo che ebbe per regista il grande Renoir. Le  vicende, anche di costume, sono semplicemente e onestamente narrate nel libro da Alliata con l’occhio   rivolto anche ad altri comprimari e co-protagonisti delle sue imprese, fra i tanti magnificamente descritti svetta un Luchino Visconti, geniale regista ed esteta decadente, immerso nella sua turris aeburnea, scostante rampollo comunista con ville splendide e camerieri in livrea, il cui corpo morto venne esposte a Botteghe Oscure. Non manca inoltre il ricordo di un funambolico, affascinante Raimondo Lanza di Trabia, su cui si sono scritte tante pagine, ultime quelle della figlia Raimonda e del bravo Vincenzo Prestigiacomo in un libro edito alla Nuova Ipsa. Decine le figure di contorno illustrate, che sono però citate sempre a proposito e con garbo, avvolte con giusta esecrazione , specie fra la fauna dei politici di professione e dei responsabili del mancato decollo dell’economia del secondo dopoguerra, autori di politiche dissennate di presunto sviluppo (a cominciare dalla disgraziata Cassa per il Mezzogiorno) di cementificatori senza scrupoli e di affaristi  impuniti. S’inquadra in tale contesto la seconda parte del libro legata alle nuove avventure di Moncada e Alliata, nella pista delle surgelazioni e dei gelati confezionati in quel di Catania.
Chiude il volume la dettagliata Odissea, fino ai più piccoli particolari, patita da Francesco e da Vittoria per i beni di famiglia “donati” dalla cognata di Francesco al seminario della Curia di Palermo (l’amato palazzo cittadino), e all’Opus dei (quello bagherese, a cui l’Opera rinuncerà saggiamente a favore degli Alliata ). Una pagina oscura, ancora non risolta nelle complesse appendici che certo getta ombre contraddittorie, non solo nello specifico caso, sull’incameramento dei beni storico-monumentali. Non fa difetto la narrazione dei fatti un violento atto di accusa, con nomi e cognomi , nei confronti della politica di tutela della Sopraintendenza ai Beni Culturali e a quella per i Beni Archivistici.
La lotta fino allo stremo per difendere la residenza straordinaria di Bagheria, per fino dalle mani ingorde e sporche di sangue della mafia, è un altro segmento importante di questo libro, che è anche un civile atto di accusa. Paradosso, come nella migliore o peggiore, che è meglio dire, tradizione pirandelliana siciliana, e  la miope messa in stato di accusa di Francesco Alliata da parte della magistratura con l’imputazione di non badare al patrimonio…  controsenso per i vincoli e gli ostacoli insormontabili che invece la burocrazia imponeva e tutt’ora impone, alle strutture in degnado.
Insomma, un libro da leggere e godere e su cui riflettere, specie pensando ad un micromondo  come Bagheria tanti bella quanto perseguitata e  violentata dal malaffare. A proposito di Bagheria non si manchi di visitare l’appena aperta al pubblico Villa Sant’Isidoro de Cordoba, un gioiellino ancora miracolosamente intatto anche negli arredi, che un’altra storia da raccontare.   

lunedì 27 luglio 2015

Stefano Vilardo tra furore e memoria

di Tommaso Romano 

Stefano Vilardo e Tommaso Romano
In un suo puntuale saggio Aldo Gerbino parla di Stefano Vilardo (Delia, 1922) come di un “poeta tra presente e tradizione”, definizione a tutto tondo con cui brevemente lo presentiamo.
Sodale, compagno di classe e amico di un’intera vita di Leonardo Sciascia (che dedicherà molte attenzioni critiche a Vilardo), il nostro Stefano con Antonio Motta studioso sciasciano di valore, ha dedicato un gustoso e rivelativo volumetto, edito da Sellerio, dal titolo A scuola con Leonardo Sciascia, che ne percorre il sodalizio umano, familiare, culturale (ambedue furono insegnanti elementari), l’amicizia, con pennellate di straordinaria valenza espressiva sul nostro maestro di Racalmuto, autentica coscienza critica della Sicilia e non solo, del ‘900.
L’esordio di Vilardo data la metà degli anni cinquanta con il volumetto I primi fuochi, edito da Sciascia di Caltanissetta, a cui faranno seguito altre raccolte liriche fra cui Gli astratti furori dopo Tutti dicono Germania Germania e ancora la raccolta Il frutto più vero. Impasto originalissimo di memoria, sofferta ironia, scavo nel quotidiano, eco di violenza, con abbandoni autobiografici, la poesia di Vilardo vive in e di una Sicilia arcaica e tuttavia non idealizzata, vera comunque nella povertà profonda, straziata dal potere (da tutti i poteri) e dal malaffare anche mafioso, impastato di “miraggi e pene” come ne scriveva Vincenzo Consolo, senza dimenticare la forza perduta per sempre della “comunità solidale” che era una condizione reale dei paesi siciliani.
Scrittore scevro da protagonismi, a volte ostico, appartato Vilardo ha donato con la sua opera poematica Tutti dicono Germania Germania pubblicata prima da Garzanti (1975) e poi da Sellerio (2007), con bella postfazione di Gerbino, e articolata in 42 poemetti che disegnano liricamente di “quando i clandestini eravamo noi”. Certamente si tratta del capolavoro vilardiano che lo pone fra i classici siciliani del nostro tempo. Come acutamente afferma Giuseppe Saja in un suo articolo del 1992 le testimonianze dirette e raccolte da Vilardo sugli emigranti e la loro condizione, ovviamente con geniale rielaborazione lirica, si “prestavano non tanto ad una riscrittura in prosa, quanto a una trasposizione in poesia, in versi liberi che avrebbero dovuto “inchiordare” l’attenzione dei lettori sulla piaga dell’emigrazione, sugli effetti disumani dello “sradicamento” di tanti contadini meridionali, costretti alla mancanza di lavoro a battere suoli stranieri non sempre ospitali”.
Sciascia scrisse nell’introduzione, che il pregio maggiore dell’opera vilardiana consisteva nella “ricreazione” di vicende che si impongono per la loro alta drammaticità fra ripetizioni anacoluti, per una realtà che è anche riflessione esistenziale, documento umanissimo, dolore non sempre redimente sullo sfondo di uomini attratti da un benessere non sempre reale che lasciano le miniere, i campi, verso un nuovo disidentico paesaggio.
Temi ricorrenti che ritroveremo nel tessuto narrativo degli Astratti furori dove il tessuto etno-antropologico e la rielaborazione della radice popolare si incontrano con la violenza gratuita e la stupidità del Ventennio, narrato a sua volta e senza conformismi in Uno stupido scherzo senza tacere la decadenza socio-culturale successiva in grado di far perdere all’intellettuale perfino la sua funzione di denuncia e coscienza critica, come Vilardo ha a voce chiara denunciato in una intervista. Come ha scritto Andrea Camilleri “ Vilardo trascende il reportage in versi per assurgere alla dimensione di una poesia senza aggettivi”.
La lingua di Vilardo, ben prima di altri sperimentatori, è una originale sintesi di quotidianità infarcita dal nostro efficacissimo idioma, con citazioni di una cultura viva e palpitante, profonda e tuttavia mai appariscente, vigile sempre, anche nelle descrizioni dell’antieroe Lorenzo Cutrano di Una sorta di violenza, che si snoda nel clima retorico e totalitario tra le due guerre.
Vilardo è quindi un testimone, un ricreatore di realtà e di miti senza retorica sacrale (porrei una sorta di parentela con il grande Giuseppe Bonaviri), senza esibire soverchie illusioni e speranze di trascendenza, il suo oltre che testo letterario di alto valore è documento antropologico, denuncia delle ingiustizie, anche delle difficoltà dell’esistere, ai limiti del nichilismo. Tuttavia il viaggio di Vilardo è sempre scavo, anche religioso malgrado le apparenze, mai mera cronaca raccontata, scavo di sé appunto e della propria terra nella parola intesa come unica possibilità, anche quella che ci appare come la più semplice del linguaggio comune, non trascurando nel suo originale linguaggio simboli, metafore, rimandi, consuetudini, proverbi (è recente l’edizione critica di testi di Salamone Marino) nella consapevolezza che i furori non mutano né storia né vita. E la parola di Vilardo che si pone, in sostanza, come scriveva Claudio Marabini “ con la discrezione di un’ombra che pretende soltanto di porre un sigillo d’umanità”, nel tempo che scorre tra memoria e sangue.
Da Vittorini a Dolci, da Brancati a Bufalino, a Sciascia, Buttitta e Fortunato Pasqualino, Vilardo si iscrive di diritto nella grande tradizione letteraria isolana che in Verga e De Roberto hanno i capostipiti moderni, accompagnando una rara capacità di trasmettere al lettore realismo, umori e sensazioni, tutti elementi apprezzati dalla critica più puntuale e attenta di varie latitudini ideologiche da Fausto Gianfranceschi a Tano Gullo.
Certo Sciascia rimane per Vilardo un esemplare modello permanente nella condivisione, nell’amicizia e nella pratica letteraria.

martedì 14 luglio 2015

Il suicidio dell'umano

di Tommaso Romano

Le maschere pirandelliane ci appaiono sempre più come rappresentazioni simboliche di tragedie verosimili.

La realtà ha superato ogni fantasia, ogni dissonanza eccentrica e marginale, per diventare preda del volgo, i cui fili invisibili muovono i burattinai della globalizzazione dei cervelli e delle anime.
Le maschere delle disumanizzanti e sfigurate metropoli, che girano intorno a noi fra la messa in scena e il macabro, sono l’annuncio grottesco e ultimo della disperazione per sazietà, del continuo e sciatto autorinnegarsi nella intima essenza stessa della propria natura, nei gesti, nei costumi, nel linguaggio. Con l’aggravante che la scienza divenuta sincretismo e la tecnica pervenuta a tecnocrazia, hanno aumentato l’astrazione fino al parossismo dell’illimite, al virtuale nulla percepito e sostenuto come reale. 
Non scomoderemo l’immenso Vico quando ci ammonisce sul pudore – termine e concetto che i più ormai ignorano o deridono, e non scomodiamo i “perduti valori” – ma queste caricature di maschi, femmine e prodotti assortiti, di pseudo-umanità, tanto somigliano alla falsa allegria dei demoni del “bene”, che si sono moltiplicati e si moltiplicano per voluto sadismo e rivendicano il “diritto” alla mutazione totale, approdo alla vittoria finale del c.d. amore. 
Eccolo l’esito del fondamento moderno, l’occultamento furibondo del Mistero, del Metafisico, dell’Infinito, che ripudiando Dio e la Sua legge, aveva promesso un messianismo felice in versione marxista o turbocapitalista, fino alla nuova positiva religione di Comte, al nichilismo, alla caduta nel vuoto della noia. 
Anche nel comune sentire, in nome di una frase che è più di una rivoluzione – Chi sono io per giudicare ? - si fa strada la beota acquiescenza a non avere e proporre fondamenti, domande, dissensi. Non dico di votarsi al martirio, certo, al rischio e al pericolo che è il mestiere degli eroi e dei santi, alla rivolta manifesta – un aiuto in sostanza ai sovvertitori – quanto al destare in sé un radicale disgusto interiore, vocandosi al senso e alla pratica della distanza e del necessario ignorare. 
Alla morte di Dio ucciso dall’uomo segue, come lo stesso grande e disperato Nietzsche capì, lo svuotamento verso il suicidio dell’uomo che si manifesta appunto in molteplici modalità: la transitorietà di ogni cosa, il perseguire il corpo anche con segni e incisioni che lo carnevalizzano a vita, il tentare la mutazione antropologica rispetto alla natura, al rifiuto dell’idea stessa della vita e del futuro, nell’ordine creaturale e cosmico. 
La farsa che si consuma nelle nostre strade e negli antri, è un annuncio del vero tragico epilogo mortifero in atto.

venerdì 10 luglio 2015

Apologia della "Sapientiae Christianae" nel tempo dell'autodistruzione



di Tommaso Romano

Nel giorno della consegna della falce e martello con pseudo forma di croce al Papa (stupito?!) da parte del dittatore boliviano Morales, nel giorno della definitiva approvazione della pessima legge sulla scuola Giannini-Renzi, nel giorno della (non definitiva…) condanna al corruttore di deputati, ho riletto un Enciclica del 10 gennaio 1890 di Papa Leone XIII, pontefice non certo modernizzante (come sostengono alcuni zelanti perfettisti) dal titolo “Sapienteae Christianae”, scritta con un linguaggio chiaro, coerente, diretto che seguiva in continuità l’insegnamento di Pio IX e il Vaticano I e anticipava San Pio X e il suo Magistero antimodernista. Lo stesso, in corrotto Magistero che troviamo, in linea dottrinale coerente, fino a Pio XII.
Prima di qualche considerazione sull’Enciclica leonina (del Papa cioè che non scrisse solo la pur superba “Rerum Novarum”) alcune semplici domande da un semplice cattolico – pieno di peccati e di errori – non “adulto” e non progressivo, e vorremmo che qualche Galantino ci rispondesse: l’insegnamento magisteriale della Chiesa (non di singoli, a volte riprovevoli, comportamenti) fino a Pacelli e da riporre definitivamente in qualche archivio del tempo andato? A questo Magistero qualche radice e valore non solo se riferito al tempo storico? (se così fosse, l’Enciclica di Francesco sull’ambiente come potrebbe considerarsi se non un documento sociologico e quindi interpretativo e privato e certo non altro che un contingente atto pastorale di indirizzo come avvenne per gli Atti del Vaticano II, pastorali appunto, così definiti non da un cardinale Siri o Ottaviani, ma da allora cardinale Ratzinger, poi Benedetto XVI, ancora felicemente vivente e parlante – bene – di musica sacra). Ancora la Chiesa bimillenaria voluta da Cristo stesso con Pietro primo Pontefice, a forse errato sempre, insegnando le cose che ha insegnato al popolo cristiano ancora sano e saldo grazie all’ortossia degli insegnamenti sulla fede dei padri? Se non è così, come io credo invece col Credo del Concilio di Nicea, allora le cose stanno in questo modo: o si riconosce per vero un insegnamento assistito dallo Spirito Santo per due millenni sempre e che si vivifica nel tempo alla luce e al fondamento della tradizione, o quell’insegnamento è parziale ed è da intendersi storicisticamente e quindi non interamente vero, parziale, superabile secondo liberale antropocentrismo. Per tali elementari sillogismi (non ho una Fede “adulta” ed emancipata come tanti Marx, il cardinale tedesco intendo molto più avanzato di quel tale “ebreuccio” di Treviri, per usare le parole di Giuseppe Tomasi di Lampedusa) o la Chiesa Cattolica, Apostolica e Romana è nata cinquanta anni fa, insieme al fumo di satana che vi si è introdotto (Paolo VI) e, quindi, tutto quanto appartiene al prima è verbosa, inutile anticaglia e conseguentemente tutto ciò che viene dopo è verità (relativistica?).  Qualcosa non quadra alla logica, al retto sentire.
Se si spezza la continuità non solo storica ma dottrinale, il rischio che stiamo correndo è la deriva, che il modo invece tanto ama da applaudirla conformandosi così alla deriva stessa.
Dai padri ai Santi Agostino, Bonaventura, Tommaso d’Aquino, passando per i Santi Tommaso Moro, Pio V, Bellarmino arriveremo alla costanza della Fede professata nell’unica fedeltà che Papi e Vescovi, per primi dovrebbero avere e continuare ad insegnare: quella a Gesù Cristo.
Come dice Piero Vassallo noi non crediamo alla “vacanza” dello Spirito Santo né a quella di ieri né a quella di oggi e non siamo sedevacantisti. Siamo sempre rimasti dalla parte della tradizione e per la verità soprattutto seguendo il monito di Gesù Cristo nella Chiesa, anche quando non era umanamente più giusto stare ad Econe (che tante giuste cose diceva e dice) ventisei anni fa.
Ma siccome egualmente crediamo nelle Profezie e nell’Apocalisse giovannea che questo tempo ci propone in atto e, se è vero che non prevalebunt e altrettanto vero, perché è scritto ed è verità di fede, che questo è il tempo ultimo e degli ultimi (senza conoscerne ovviamente le umane date) prima della Restaurazione e della Parusia per i Salvati.
Leggete Giovanni, cari cristiani adulti senza le lenti deformanti della vostra albagia.
In tanto ripropongo l’Enciclica di leone XIII, attualissima come ogni autentica profezia ed insegnamento. Tutto il contrario, nello spirito e nella lettera, dell’odierno “politicamente corretto” discorrere di Fede, alla luce dei corruttori segni dei tempi.
A cominciare dalle considerazioni pontificie  che Leone XIII fa sulla guerra a Dio a cui si vota il mondo con i suoi mentonieri maestri “che prometto agli altri la libertà, mentre essi stessi sono schiavi della corruzione”(Pt. I, 19). Quanto “più grandi sono i progressi che riguardano la vita corporale, tanto maggiore è il tramonto dei valori che riguardano l’Anima” scrive Leone XIII e, ancora, “è un atto di empietà abbandonare l’ossequio a Dio per soddisfare gli uomini”.    
Inoltre “se le leggi dello Stato dovessero essere apertamente in contraddizione con il diritto divino; se dovessero essere ingiuriose verso la Chiesa, o contraddire i doveri della religione o violare l’autorità di Gesù Cristo nella persona del Papa, allora è doveroso resistere ed è colpa ubbidire; e questo si collega al disprezzo verso lo Stato, perché si pecca anche contro lo Stato quando si va contro la religione.” .
Dal che dice il Papa “appare chiaramente che se leggi umane dovessero stabilire qualcosa di contrario all’eterna legge di Dio, sarebbe giusto non obbedire”.
Per finire, meditando vorrei che qualcuno con me riflettesse rispetto a questi ammonimenti:Cedere all’avversario o tacere, mentre dovunque si alza tanto clamore per opprimere la verità, è proprio dell’inetto oppure di chi dubita che sia vero quello che professa” e , quindi, “ ne consegue che qualunque cosa certamente rivelata da Dio deve essere accettata con pieno ed eguale assenso:”negare Fede ad una sola di queste, significa rifiutarle tutte”.
Resistere, allora, allo Stato che impone leggi antinaturali e anticristiane (e se il caso a qualche maggioranza di Sinodo) radicando nell’animo ciò che Paolo chiama “prudenza dello Spirito”(Rm. 8,6) l’aurea via di mezzo, “propria di ogni privato, che nel governo di se stesso segue i dettami della retta ragione”, il “bene personale di ciascuno”.
A questo deve mirare la resistenza interiore, la professione – senza se e senza ma – al Cristo Crocifisso e risorto per noi.


                           

giovedì 9 luglio 2015

Nel buio aspettando l’alba, speranza che non muore schegge dal mosaicosmo di Tommaso Romano

di Gianfranco Romagnoli

Questo agile volumetto, che esce per le edizioni Limina Mentis nella collana Fede e Ragione in concomitanza con il sessantesimo compleanno di Tommaso  Romano, si propone di illustrare la figura e il pensiero di questo importante Autore, ben noto non soltanto nei circoli intellettuali di Palermo, ma altresì a livello nazionale ed internazionale.
Nel suo Proemio la curatrice, sua collega ed amica, non si nasconde la difficoltà di fornire un compiuto ritratto di una personalità tanto complessa ed in continua evoluzione: tuttavia, attraverso una “carrellata” sulla sua vita, le sue tantissime opere ed i suoi vasti e molteplici interessi, riesce a dare un’idea abbastanza precisa di uno studioso che è, al tempo stesso, filosofo, poeta, narratore, editore, ricco di incontri e relazioni di amicizia con i più importanti personaggi della cultura mondiale contemporanea e che presenta tanti altri aspetti, che sarebbe arduo e riduttivo tentare di definire.
Ne emerge il ritratto di un intellettuale a tutto tondo, una figura che definirei “uomo del Rinascimento” per la molteplicità degli interessi e dei suoi campi d’azione; ma soprattutto, come pure la stessa Allotta sottolinea, la figura di un Maestro, non soltanto per avere svolto, con continuità a tutt’oggi ininterrotta, un’alta opera educativa e formativa della gioventù, ma  anche (e specialmente, a mio avviso) per avere raccolto intorno a sé e alle sue iniziative, come in una scuola filosofica, tanti ingegni che si riconoscono nelle linee portanti del suo pensiero, volto a coltivare con assoluta coerenza, mantenuta anche negli incarichi politici ricoperti in passato, la ricerca del Vero, del Bello e del Bene quali frutti dello Spirito e  personale contributo a quel “mosaicosmo” da lui teorizzato, al cui disegno complessivo concorrono con uguale necessità, ciascuno mediante la propria “tessera” , tutti gli esseri umani.
A questo punto, la parola passa direttamente a Tommaso Romano attraverso gli scritti, racchiusi nel simbolico numero di sette capitoli, che dalla sua vastissima opera la curatrice  ha enucleato come rappresentativi del suo pensiero: “schegge” che trattano, rispettivamente, l’essenzialità della parola viva; la teoretica come altezza cosmica; la gnoseologia come integrità dell’esserci; l’etica in tempo di crisi; la pedagogia come formazione dell’uomo integrale; l’estetica come etica; per culminare nel finale capitolo “dalla morte di Dio al Dio vivo”.
Un adeguato commento a ciascuno di queste “schegge” richiederebbe molto tempo e spazio: mi limiterò pertanto, pur avvertendo in pieno la riduttività della mia scelta, a richiamare alcuni punti, “schegge di schegge”, che mi hanno particolarmente colpito.
In una prima parte (capitoli da 1 a 3),  svolta su un piano squisitamente teoretico, la Parola è definita epifania del Sacro, mezzo di redenzione, speranza, profezia: in particolare, la parola poetica è versus, ritorno al Divino, sortilegio e mito, base di tutte le arti e, attraverso esse, veicolo di accesso alla verità. Poi, la frase «L’Origine crea l’Inizio, successivamente, l’Inizio crea gli enti, gli enti divengono. Dal caos al Kosmos», riecheggiante temi neoplatonici pur nella originalità della successiva elaborazione, attenta al rapporto con l’Altrove e l’Attimo e sfociante nella costruzione del concetto di Mosaicosmo, formato da tante tessere e sintesi simbolica delle vite degli uomini, che «si perpetuerà come rinnovamento dell’umano e come perennità dell’anima».
La gnoseologia, infine, intesa come costruzione filosofica chimerica sì, ma necessaria, anzi indispensabile, legata alla percezione e che disquisisce sull’Eterno, ma da non assolutizzare in sistemi che esaltino il passato o lo condannino decontestualizzandolo.
In una seconda parte (capitoli 4 e 5) il filosofo scende sul piano dell’agire umano, denunciando la crisi di valori dei nostri tempi che ha generato il corrente pensiero unico, mascherato di falso buonismo, di «umanitarismo senza humanitas» e di ipocrita egualitarismo, sottolineando, contro il pericolo di omologazione e marginalizzazione,  la necessità di assumere un atteggiamento attivo verso se stessi quale «condizione di dignitosa sopravvivenza, uno spazio di ammutinamento dove far convergere le poche individualità disponibili per non lasciarsi stritolare da un dominante pensiero planetario dell’indistinto, del conformismo, del banale misto a volgarità»: ciò si realizza  nutrendosi di «conoscenza fisica e oltrefisica», aiutandosi con letteratura, filosofia, fede, logica, recuperando l’autentica Tradizione e riscoprendo il senso del Sacro. Una tale impostazione trova il suo naturale sviluppo nelle considerazioni che il nostro Autore svolge sulla pedagogia, tutte puntate sulla missione del Maestro di formare nel giovane l’uomo integrale, educandolo alla  libertà, alla scoperta dello “stile” e del “gusto”; riflessioni che si confrontano, in senso fortemente critico, con l’attuale stato di totale crisi della scuola, indotta, dal cedimento al progressismo degli slogan, a scelte spesso orientate a un «discutibilissimo “specialismo” che elimina l’orizzonte della totalità»,.facendone non più un luogo di cultura, ma «una burocrazia di funzioni affidate senza selezione, a singoli organismi pletorici e inconsistenti, dagli effetti spesso perniciosi, che producono intralcio e perdita di tempo, sottratto allo studio e all’apprendimento».
Con il sesto capitolo, dedicato all’estetica come etica, il Nostro torna alla riflessione teoretica e nel richiamare l’endiadi platonica Bellazza-Virtù, pur affermando l’impossibilità di enunciare un sistema estetico e, quindi etico, asserisce che «al di là di ogni declino epocale si può, solo se si vuole, accarezzare il Bene e la Bellezza anche aspirando alla Grazia, all’intervento della Provvidenza e alla Redenzione». Il bene è la partecipazione al Sacro e il suo rifiuto ne è l’antitesi. Va respinto il delirio di onnipotenza: l’uomo non è Dio, ma pellegrino errante; va valorizzata l’amicizia come affinità, che è Armonia. Occorre tenere conto del pluralismo dei valori nel mondo, ma mai rinnegare la propria coerente visione.
La riflessione teoretica di Tommaso Romano culmina ad altezza divina nell’ultimo capitolo in cui egli, premesso che «Dio c’è senza bisogno delle nostre credenze», individua nell’uomo la scintilla dell’Eterno e vi rintraccia il Ritorno al punto di Partenza. Il Figlio di Dio fatto uomo e da noi crocifisso, è il portatore della vera  Pace, che non è «il risultato di iniziative o trattative umane, ma piuttosto … fiducia e fede nella Tradizione … messaggio non da proclamare come ideale ma … realtà giù donata da Lui e in Lui». Contro le distorsioni nel proporre la figura di Cristo come pacifista e il Suo insegnamento  secondo una «ciarliera, incoerente e sincretistica nuova teologia», è «la nostra quotidianità che deve riscattare la morte di Dio, ovvero riscattare dal pensiero negativo, dal nichilismo, quella Luce che sola può illuminare  l’umano transito verso la Patria Celeste».Vivere Cristo impegna totalmente l’uomo, liberandolo: il Regno è la salvezza dell’uomo



giovedì 2 luglio 2015

La discutibile "Storia dei Musulmani di Sicilia" di Michele Amari e il giudizio divergente di Henri Bresc

di Tommaso Romano

Grazie ala generosità del valoroso medioevalista Franco D’Angelo, che ringrazio, sono venuto in possesso di un frammento di articolo, tratto dal quotidiano “La Repubblica”, dedicato alle riflessioni del grande storico francese Henri Bresc amico della Sicilia, della sua civiltà e delle sue affascinanti vicende, docente emerito di storia medievale a Nanterre, Parigi, e autore di volumi capitali sulla nostra storia isolana. Bresc, come pochissimi altri dopo Michele Amari e i suoi Tomi sulla Storia dei musulmani di Sicilia (Ed. Le Monnier, Firenze 1854 – 1872) rilasciò delle dichiarazioni non conformi alla solita e trita “vulgata” che si ripete in gran parte delle opere di ricostruzione parziale e a volte settarie ricche di avventure fantastiche raccontate dall’Amari, sulla “civiltà” impareggiabile del periodo arabo della dominazione in Sicilia. Si sa che gli stereotipi si ripetono spesso per motivi ideologico-religiosi. Amari fu, oltre che strenuo unitarista, un deciso antiborbonico, anticlericale fra i più risoluti, laicista dichiarato. E ciò condizionò – volutamente consapevole il pur grande storico – il suo più che positivo giudizio sui mussulmani in Sicilia. Per converso si demonizzavano le “tirannidi” preunitarie.
Lo stesso mito di Federico II andrebbe opportunamente riletto, oltre i luoghi comuni e le agiografie. Piace a questo punto ricordare l’opportuna revisione sul regno di Federico III (Rubbettino) ad opera di Pasquale Hamel, storico di valore e autenticamente libero.
Ma ecco ciò che limpidamente afferma Bresc e che la cultura storica e quella divulgativa (di cui sono pieni gli scaffali delle nostre librerie e biblioteche) riguardanti i nostri avvenimenti non tiene in giusto conto, per una rivisitazione che dovrebbe far riflettere anche alla luce degli avvenimenti dell’ora presente: “La sua passionalità [di Amari] o porta a visioni romantiche, tanto suggestive quanto costruite a tavolino, a cominciare dalla mitizzazione dell’Islam, visto come regno della perfezione, dove tolleranza, splendore ed eternità si fondono”. Anche sul tema della nazione italiana e sulla sua genesi, sempre riferendosi ad Amari, Bresc aggiunge: “E anche l’idea di una nazione Italia che, senza smarrire la propria lingua, ogni tanto risorge dalle sue ceneri, è fragile. Come dimenticare che per secoli in Sicilia si è parlato solo greco e arabo e che solo nel 1200 è il dialetto italico? Anche la discontinuità fra bizantini e musulmani non regge, visto che le due dominazioni i punti di continuità sono tanti. Infine in Amari emerge il culto del condottiero, di una democrazia violenta, una sorta di libertà armata di matrice medioevale; un certo machismo lo porta a demonizzare popoli per lui “effeminati”, bizantini e greci appunto”.
Concetti e valutazioni chiare da praticare come piste autorevoli per ulteriori approfondimenti.
Certo sarebbe disonestà intellettuale sminuire in toto Michele Amari che, anche per Bresc giustamente rimane “Grande”. Ma la sua opera e la divulgazione delle sue tesi non possono ripetersi pappagallescamente senza gli approfondimenti, ancora tutti da rivedere e riconsiderare attraverso gli archivi storici e la bibliografia internazionale. Con la serena certezza che molto in tal modo, potrebbe ricevere nuova luce. E che l’immenso Vico, non errava di certo con i suoi corsi e ricorsi e con la sua teoria della storia ideale eterna.  La storia ci insegna, basta trovare gli onesti che la studino senza le lenti affumicate, deformate e false delle ideologie.